L’economia circolare allarga sempre più il suo raggio d’azione e, complici anche le policy europee, interessa un crescente numero di prodotti e comparti. Tra questi, il tessile-abbigliamento, uno dei settori simbolo del made in Italy, deve oggi confrontarsi con gli obiettivi del Green Deal.
Nonostante la fashion industry sia sempre più attenta alla sostenibilità nel disegno e nella produzione dei suoi prodotti, è ancora indietro nel loro recupero e riciclo. A livello globale si stima che solo l’1% dei rifiuti tessili sia effettivamente utilizzato nella produzione di nuovo vestiario, mentre circa l’87% è inviato ad incenerimento o discarica, il 13% è riciclato in altro modo e il 12% è riutilizzato in impieghi diversi dall’abbigliamento (fonte: Ellen MacArthur Foundation).
La Direttiva UE 2018/851 del Pacchetto Economia Circolare ha pertanto chiesto agli Stati membri di rendere obbligatoria la raccolta differenziata della frazione tessile dei rifiuti urbani a partire dal primo gennaio 2025. L’Italia ha però deciso di anticipare al 2022 l’attuazione della Direttiva, portando alla creazione di modalità di gestione simili a quelle già esistenti nelle filiere più consolidate. Ma come si presenta oggi il sistema italiano?
La gestione dei tessili è di primaria importanza per le circa 55.000 micro, piccole e medie imprese della moda Made in Italy (abbigliamento, tessile e pellame) e per i loro 309.000 dipendenti (fonte: Confartigianato). Tra 2009 e 2019, i rifiuti tessili hanno costituito il 3,6% del totale dei rifiuti urbani generati in Italia e nel 2019 rappresentavano circa lo 0,9% dei quantitativi raccolti in modo differenziato, pari a 157.700 tonnellate, di cui il 51% proveniente dalle sole regioni settentrionali, alle quali si aggiungono 335.000 tonnellate di rifiuti speciali (fonte: Ispra).
La raccolta e il trattamento dei tessili, diversamente da altri tipi di rifiuto, possono avere un ritorno economico, capace di coprire i costi di gestione e talvolta di generare un margine. Conseguentemente, il servizio è spesso affidato a costo zero oppure prevedendo una sorta di contropartita a livello economico o sociale, come il sostegno a progetti di solidarietà. La filiera risente però di diversi fenomeni di illegalità, legati all’economia sommersa, con falsi processi di igienizzazione, smaltimenti illegali degli scarti e infiltrazioni della criminalità organizzata.
L’attuazione del principio di responsabilità estesa del produttore (EPR) potrebbe quindi generare sensibili benefici in termini di trasparenza, portando alla riorganizzazione della filiera, con la creazione di uno o più sistemi di gestione e il monitoraggio della situazione rispetto agli obiettivi.
Peraltro, nella filiera esistono già alcuni soggetti il cui ruolo vedrà molto probabilmente un’evoluzione a partire dal prossimo anno. Tra questi, il Consorzio CONAU (Consorzio Nazionale Abiti Usati), nato nel 2008 per rappresentare le aziende della raccolta di abiti e accessori usati e divenuto Associazione UNIRAU a partire da maggio 2021. Alla luce della riorganizzazione del settore prevista, infatti, l’associazione ha cercato di estendere la propria base associativa coinvolgendo operatori della raccolta, del trading, dell’intermediazione e della selezione. Altro player della filiera è poi l’Associazione tessile riciclato italiana (ASTRI), nata nel 2017 a Prato, i cui associati sono le aziende dedite alla raccolta, alla cernita, al recupero e alla produzione di fibra riciclata. ASTRI sta oggi cercando di creare un sistema di gestione nella filiera tessile che si appoggi sugli impianti di selezione dei propri associati.
La raccolta dei rifiuti tessili è attualmente strutturata solo parzialmente sul territorio italiano e la decisione di anticipare la raccolta al 2022, prima che l’Europa pubblichi la propria strategia, pare una decisione ambiziosa che può scontrarsi con diverse criticità.
La forte crescita dei volumi raccolti che si potrebbe avere dal prossimo anno troverebbe impreparati diversi Comuni, poiché attualmente la raccolta viene effettuata su base volontaria. Si deve infatti tenere presente la stima di Ispra che vedrebbe una media del 5,7% di rifiuti tessili nell’indifferenziato. Al contempo, il settore non dispone ancora di un regolamento End of Waste, nonostante sia in corso il relativo iter e vi siano già stati incontri preparatori tra Ministero dell’Ambiente, Ispra, CONAU, Confartigianato e ASTRI.
La composizione eterogenea delle fibre tessili è poi un fattore da non trascurare, che (come, ad esempio, per le plastiche) rende la selezione una fase chiave per garantire l’ottenimento di materie prime seconde di buona qualità, evitandone lo smaltimento. La Svezia, come l’Italia, ha deciso di introdurre un sistema fondato sul principio EPR per i propri rifiuti tessili a partire dal primo gennaio 2022. Il Paese però è già oggi leader nello sviluppo di tecnologie innovative di selezione e riciclo per tale frazione, oltre che della produzione di fibre prodotte a partire dal riciclo degli abiti usati. Nel settembre 2020, a Malmö, è stato, infatti, completato il primo impianto di selezione dei rifiuti tessili completamente automatizzato, parte di un più ampio progetto finanziato dal governo svedese per lo sviluppo di soluzioni di economia circolare nel settore tessile.
La ridefinizione della filiera della raccolta e recupero, inoltre, non dovrà penalizzare il riuso dei beni tessili, da sempre un tassello importante della filiera. Basti pensare che nel 2020 il tasso di riutilizzo dei rifiuti tessili urbani in Italia si attestava intorno al 65%-68% (fonte: Unicircular), contro una media del 50% nell’Unione Europea (fonte: Eurostat). La struttura distrettuale del comparto potrebbe contribuire a velocizzare il processo di riorganizzazione della filiera, dato che circa il 60% delle aziende tessili è concentrato in Toscana, Lombardia, Veneto e Piemonte.
Come per altri settori, non mancano le iniziative trasversali a più comparti, che in futuro potrebbero sicuramente aumentare grazie ai fondi stanziati dal PNRR. Tra queste, ad esempio, la collaborazione tra Aliplast, controllata di Hera, e la startup toscana CDC Studio per la produzione di abiti a partire da plastica riciclata oppure le iniziative di Aquafil per la produzione di filati dai residui di reti da pesca.
Il settore è quindi in fermento, con numerose iniziative aziendali e associative in avvio. Nonostante il balzo in avanti nell’attuazione della Direttiva, tuttavia, l’Italia manca anche in questo caso di una strategia nazionale di medio-lungo periodo, capace di indirizzare le iniziative e di affiancare/integrare le attività di recupero e di riuso dei prodotti tessili divenuti rifiuto. Ugualmente manca un piano per l’execution con misure e valutazioni adeguate. Insomma, l’Italia punta ad essere la prima della classe nei rifiuti tessili, ma deve ancora fare molti compiti a casa. Le opportunità sono infatti molte, ma il tempo a disposizione è ormai poco…