Il riciclo chimico, sfida tra policy, mercato e investimenti

Negli ultimi anni è venuto alla ribalta in modo ricorrente il riciclo chimico, ritenuto da alcuni un punto di svolta nel recupero delle plastiche, da altri un’opzione ancora non matura economicamente.

Questa soluzione comprende diverse tecnologie e processi possibili (tra cui, ad esempio, pirolisi, gassificazione e depolimerizzazione) che modificano la struttura chimica dei rifiuti polimerici per trasformarli in materiali di qualità. Il grande vantaggio è la possibilità di gestire flussi di rifiuti di plastica complessi (ma anche tessili e pneumatici) che altrimenti sarebbero inviati a recupero energetico o in discarica. Di fronte al crescente ammontare di plastica immessa a consumo e agli ambiziosi target europei dei prossimi anni, il riciclo chimico sta quindi assumendo un’importanza sempre maggiore nelle politiche europee e nelle strategie di diversi operatori, diventando complementare, ma non sostitutivo, al riciclo meccanico. Per favorire uno sviluppo e un’estensione delle applicazioni, tuttavia, occorre ancora creare un contesto adeguato e risolvere alcune criticità.

Nel 2019, la Direttiva sulle materie plastiche monouso (SUP) ha fissato obiettivi di contenuto minimo di plastica riciclata per le bottiglie monouso. Nel dettaglio, il materiale impiegato per produrle dovrebbe essere costituito da almeno il 25% di plastica riciclata a partire dal 2025 per le bottiglie in PET e dal 30% a partire dal 2030 per tutte le bottiglie. I target sono stati poi ampliati dal Regolamento Imballaggi (Packaging and Packaging Waste Regulation, PPWR), che chiede di conseguire:

  • entro il 2030, una percentuale minima in peso di materiale riciclato in tutti gli imballaggi in plastica immessi sul mercato UE pari al 30% per imballaggi in PET sensibili al contatto (in genere a contatto con alimenti o forniture mediche) escluse le bottiglie monouso in PET; al 10% per gli imballaggi sensibili al contatto in materiali plastici diversi dal PET, escluse le bottiglie monouso per bevande; al 30% per bottiglie di plastica monouso per bevande; al 35% per tutti gli altri imballaggi in plastica.
  • entro il 2040, tali percentuali saranno al 50% per imballaggi in PET sensibili al contatto, escluse le bottiglie monouso in PET; al 25% per imballaggi sensibili al contatto realizzati con materiali plastici diversi dal PET, escluse le bottiglie monouso per bevande; al 65% per le bottiglie di plastica monouso per bevande e tutti gli altri imballaggi in plastica.

Il riciclo chimico può essere un tassello da non trascurare per raggiungere tali obiettivi, ma richiede al contempo l’adozione omogenea di un metodo di bilancio di massa, ossia di una metodologia volta a stabilire il contenuto di plastica riciclata rispetto a quella vergine in un prodotto.

Le tecniche di allocazione di massa oggi a disposizione sono molteplici e hanno impatti diversi in termini di parità di condizioni tra il riciclo chimico e quello meccanico. In particolare, un acceso dibattito nell’Unione ha riguardato la scelta fra tre di queste:

  • proporzionale (“proportional”), in cui le quantità di riciclato in input al processo di produzione sono allocate a ciascun prodotto in output nella stessa quota di ciò che rappresentano nell’input totale. In questo caso, le dichiarazioni sul contenuto di materiale riciclato non possono essere trasferite da un prodotto in output a un altro.
  • solo polimeri (“polymers only), dove la quantità teorica di plastica riciclata impiegata nella produzione di nuovi polimeri può essere liberamente assegnata tra questi output.
  • “fuel-use exempt”, in cui l’uso di carburante nel processo e i co-prodotti generati e utilizzati come combustibile sono esclusi dal calcolo. La rimanente quantità teorica di plastica riciclata può essere liberamente ripartita tra i restanti prodotti in uscita.

Proprio quest’ultima possibilità è stata scelta come metodo di calcolo per i Paesi dell’Unione Europea in aprile. Una decisione che trova tuttavia contrarie diverse associazioni, convinte che tale metodologia possa avere un effetto distorsivo sulle informazioni riguardanti l’effettivo contenuto di materiale riciclato in un polimero, lasciando i riciclatori esposti a potenziali accuse di greenwashing.

A dispetto del contesto normativo ancora in evoluzione, diversi player hanno già puntato sul riciclo chimico. Gli investimenti pianificati nelle diverse tecnologie, infatti, vedranno, secondo le stime, una crescita significativa, passando in Europa da 2,6 miliardi di euro nel 2025 a 8 miliardi di euro nel 2030, con la relativa produzione di plastica riciclata che salirà da 0,9 milioni di tonnellate nel 2025 a 2,8 milioni di tonnellate nel 2030. Questi volumi si inquadrano in una produzione europea di plastiche che nel 2022 è stata di 58,7 milioni di tonnellate, di cui oltre 7 milioni ottenuti dal riciclo meccanico.[1]

Anche in Italia sono diversi i casi recenti.

In febbraio, un gruppo attivo nella gestione dei rifiuti speciali ha acquistato le quote di una società operante negli additivi chimici insieme alla quale sta costruendo un impianto di riciclo chimico per il PET, per lo più derivante dal food packaging; il prodotto risultante troverà impiego nell’industria degli imballaggi alimentari. In maggio, un’azienda molisana attiva nel settore dell’economia circolare ha firmato un contratto con un provider olandese che ha brevettato una tecnologia per il riciclo chimico della plastica. Obiettivo è la realizzazione di un impianto di pirolisi in grado di gestire 20.000 tonnellate annue di materie plastiche. In giugno, in Lombardia è stato inaugurato un impianto dimostrativo per la depolimerizzazione di scarti e sfridi, mentre un’azienda attiva nel settore degli imballaggi flessibili ha avviato una collaborazione con una società chimica finalizzata alla produzione di film per imballaggi alimentari, con materia prima proveniente in parte dal riciclo di plastiche post-consumo.

Oltre a definire un quadro normativo chiaro e uniforme a livello comunitario, è anche necessario promuovere investimenti nel comparto che possano favorire il miglioramento e la diffusione delle tecnologie esistenti e lo sviluppo di nuovi processi. Il tutto, in un quadro difficile come quello attuale, caratterizzato da prezzi elevati per energia e materie prime, ma anche dalla forte competizione con gli Stati Uniti e i Paesi asiatici, capaci di offrire plastiche a basso costo grazie a costi di produzione ben inferiori rispetto a quelli europei. Basti pensare che tra 2012 e 2022 gli impianti europei sono passati dal produrre il 20% della plastica mondiale al 14%, mentre la quota della Cina è salita dal 23% al 32%.[2]

Una sfida, quindi, quella del riciclo, e in particolare di quello chimico, che unisce profili ambientali e di competitività industriale nella quale l’Europa si gioca il futuro del proprio approccio green.


[1] Plastics Europe.

[2] Plastics Europe.